Processo di digitalizzazione delle aziende italiane: a che punto siamo?

Il processo di digitalizzazione delle aziende italiane è tra i fattori maggiormente in grado di incidere sulla ripresa economica dell’Italia nel medio e lungo periodo. Accelerare sul digitale, infatti, permetterebbe al Paese di usufruire di diversi vantaggi.

L’Italia da sempre soffre di un grave gap rispetto a molti altri paesi dell’Unione Europea sul fronte della burocrazia. Un problema che, se non totalmente, potrebbe parzialmente essere affrontato e superato investendo nella trasformazione digitale delle procedure.

Se da un lato la pandemia ha messo a nudo le difficoltà in materia digital dell’Italia e delle aziende italiane, dall’altro è stata l’occasione per confrontarsi con una realtà nuova, per molti addirittura sconosciuta, ma che si appresta ad entrare prepotentemente nelle nostre vite e abitudini anche quando il Covid-19 sarà soltanto un ricordo. Andiamo ad analizzare lo stato dell’arte della digitalizzazione in Italia, focalizzandoci su criticità ed opportunità.

Perché il processo di digitalizzazione è così lento

Secondo l’indice annuale dell’Unione Europea sulla competitività digitale degli Stati membri, l’Italia è al terzultimo posto in Europa per l’utilizzo di Internet, riuscendo a fare meglio solo di Romania e Bulgaria. Il Belpaese si è addirittura posizionato all’ultimo posto per quanto concerne la capacità di sviluppo digitale.
Viene, dunque, naturale interrogarsi sulle ragioni di questi gravissimi ritardi in tema di digitalization. Bisogna partire da una considerazione di tipo strutturale. Il tessuto economico-produttivo italiano vede la prevalenza di imprese di piccole e medie dimensioni. Queste, in molti casi, non dispongono delle risorse finanziarie né delle competenze per procedere alla digitalizzazione dei loro business.

Il risultato è la presenza di siti web obsoleti, integrazioni online di scarsa qualità e totale inutilizzo degli strumenti di pagamento digitali. Nel confronto con molti altri Paesi europei, l’Italia paga, dunque l’assenza di colossi imprenditoriali in grado di trainare l’intero paese verso l’impiego di nuove strategie e processi digitali.

Dunque, a livello nazionale manca una vera e propria cultura tecnologica. Fino alla fine degli anni ’70, la tecnologia prevalente in Italia era basata sulle onde radio. Solo a partire dall’inizio degli anni ’80 è cominciata la lenta transizione al cavo coassiale. A distanza di mezzo secolo, gli strumenti digitali fanno ancora fatica a sostituire vecchie e consolidate abitudini, sia nel mondo degli affari che della comunicazione ma anche in diversi settori della Pubblica Amministrazione.

Quali sono i risultati fino ad adesso?

L’incertezza politica che ormai da diverso tempo regna in Italia non è stata certo d’aiuto, contribuendo forse a rallentare il processo di trasformazione digitale. Nel 2016 in Italia è nato il primo team di digital transformation mentre nel 2019 il Governo ha dato vita al Dipartimento per la Trasformazione Digitale.

Il Ministro per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione ha approvato Italia 2025, un piano strategico quinquennale che prevede l’implementazione di 20 soluzioni digitali ed innovative. Tra i punti più importanti presenti all’interno del piano la realizzazione di infrastrutture per l’adozione della banda larga e il passaggio alla tecnologia 5G.
I primi risultati non sono tardati ad arrivare se consideriamo che l’Indice di Economia e Società Digitale (DESI) classifica l’Italia al terzo posto in Europa per la copertura della banda larga mobile e al quarto posto per l’impiego del 5G.

Oltre che strutturale, però, il vero gap sembra essere educativo e culturale. L’Italia ha il triste primato del più basso tasso di laureati in materia di Information and Communication Techonologies. È necessario uno sforzo importante da parte del Governo nazionale per la realizzazione di un piano educativo coerente volto ad insegnare alle generazioni future in che modo acquisire le competenze in campo tecnologico.

I passi che sono stati fatti grazie alla pandemia

Prima dell’emergenza coronarivus, molte aziende e lavoratori italiani non avevano idea di cosa significassero parole come smart-working, telelavoro e lavoro a distanza. Da un giorno all’altro, migliaia di imprese sono state costrette a modificare radicalmente l’organizzazione del lavoro.

Secondo l’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano, durante il lock-down marzo-maggio 2020 il numero di lavoratori in modalità agile è passato da 570.000 a 8 milioni.
Nonostante le difficoltà, qualcosa è sicuramente cambiato. I datori di lavoro stanno lentamente ma progressivamente cominciando a guardare alla produttività aziendale non più o non solo dal punto di vista delle ore lavorate in ufficio ma da quello dei risultati e degli obiettivi raggiunti. Inoltre, in base ad un sondaggio di Euromobility, l’80% degli italiani ha dichiarato che lo smart working ha migliorato l’equilibrio tra vita privata e professionale. Sorprende anche quel 52% di italiani che preferirebbe lavorare parzialmente in smart working anche dopo la fine dell’emergenza Covid-19.

Anche il Governo ha adottato diversi provvedimenti per incentivare il lavoro a distanza e, dunque, una maggiore responsabilizzazione dei dipendenti rispetto all’impiego di nuovi strumenti e tecnologie. L’augurio è che nei prossimi anni sia in ambito pubblico che privato l’Italia riesca a completare in via definitiva il processo di digitalizzazione, così da competere ad armi pari con le altre forze europee.

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